Il pesce nell'antichità classica
Nel periodo classico il pesce costituiva per Greci e Romani un’importante risorsa alimentare. Numerosi sono i riferimenti al suo consumo nelle fonti letterarie greche e latine, mentre dal punto di vista iconografico esso rappresenta un soggetto ricorrente di mosaici pavimentali, affreschi parietali, vasi e gioielli.
Affumicati o conservati sotto sale i pesci più comuni – come sardine e acciughe, nonché le parti meno pregiate del tonno – costituivano il principale companatico per gli strati meno abbienti della popolazione urbana e costiera: è significativo a questo proposito che il termine opson, con il quale si designava originariamente ogni tipo di companatico, sia poi passato ad indicare propriamente il pesce, tanto che il termine greco moderno per “pesce” ne deriva direttamente.
Appannaggio dei più ricchi erano invece il pesce fresco e le varietà più pregiate, come le celebri anguille del lago Copaide: i Greci erano infatti ghiotti di pesce d’acqua dolce come di quello di mare, e apprezzavano anche crostacei, molluschi, frutti di mare, polpi, seppie e calamari. A Roma il consumo era così forte e continuo che il pescato non riusciva mai a soddisfare completamente la domanda. Oltre a costruire bacini in cui mantenere vivi i pesci dopo la cattura, i Romani allevavano nei vivaria le qualità ittiche più prelibate, che i ricchi potevano permettersi di offrire durante banchetti prestigiosi o di rappresentanza. Dalla macerazione di pesci di specie diverse si otteneva il garum, la salsa più utilizzata nella gastronomia latina.